30 novembre 2013

I miei panini - Panino con mozzarella di bufala, pomodoro Pachino "costoluto" disidratato, puntarelle saltate ed emulsione di acciughe



Toglietemi tutto, ma non toglietemi i miei panini, potrei dire parafrasando un vecchia pubblicità, della quale non ricordo nulla se non uno slogan simile.

Questa volta un panino con la mozzarella di bufala, naturalmente quella presa nel punto vendita di Via Scirè del Caseificio "La Baronia", con il pomodorodi Pachino "costoluto", tipico dei mesi freddi, che ho disidratato per accentuarne il sapore e, per finire, con le puntarelle saltate in padella, cosa che ho fatto usando solo le foglie verdi, quelle che tipicamente si scartano quando, invece, si fanno le puntarelle nel modo classico.

Ho poi profumato il pane con un'emulsione di acciughe, fatta solamente con, appunto, le acciughe, olio extravergine e acqua. Considerando che l'emulsione si mantiene in frigorifero per almeno un paio di settimane, potete anche prepararne una dose maggiore, da utilizzare poi per altre preparazioni.

Per il pane, infine, la mia ricetta, dove questa volta ho utilizzato una farina di tipo 2, macinata a pietra, frutto di un mio generoso acquisto dal Mulino Marino, celeberrimo produttore di farine e non solo. Voi , naturalmente, potete usare la vostra o anche usare pane comprato, cercando però di prenderne uno con una bella mollica compatta e di sostanza e non quei panini eterei, che pesano pochi grammi.

Ingredienti (per un panino)
  1. Un panino (vedi sopra)
  2. Cinquanta grammi di mozzarella di bufala
  3. Uno o due pomodori pachino "costoluto" (o altra varietà)
  4. Le foglie di un cespo di puntarelle
  5. Otto filetti di acciughe sott'olio
  6. Olio extravergine di oliva
  7. Uno spicchio d'aglio
  8. Sale

Partite senza dubbio con la disidratazione dei pomodori, tagliandoli a fette, di circa mezzo centimetro di spessore, mettendoli poi in una teglia, sulla quale avrete messo un foglio di carta da forno, e poi salandoli e aggiungendo anche un po' di zucchero, fatto cadere a pioggia, che aiuterà ad esaltare la loro dolcezza, riducendo al contempo la loro componente acida.

Infornate a circa 100° per circa un'ora e mezza, comunque fino a quando non vedrete che i pomodori si saranno "raggrinziti", segno che l'acqua contenuta al loro interno è in buona parte evaporata.

Quando i pomodori sono pronti, tirateli fuori dal forno e fateli freddare.

Tanto che i pomodori vanno, procedete con la preparazione dell'emulsione di acciughe, mettendole bel bicchiere del frullatore, tradizionale o Minipimer, aggiungendo, per partire, due cucchiai di olio extravergine e due di acqua freddissima o, in alternativa, un cubetto di ghiaccio.

Fate andare alla massima velocità, in modo da dare vita all'emulsione, che regolerete nella sua densità dosando olio e acqua, fino ad ottenere quella giusta, facendo la classica prova con il dorso del cucchiaio e verificando che l'emulsione coli via lasciando un sottile strato sul cucchiaio.

Per ultimo le puntarelle, delle quali, come già detto, dovrete usare solo le foglie verdi - con il resto, naturalmente, ci potrete fare le puntarelle secondo la loro classica ricetta romana - che laverete e poi asciugherete.

Prendete una padella, meglio se anti-aderente, ungetela con due cucchiaio d'olio extravergine, metteteci lo spicchio d'aglio, sbucciato e leggermente schiacciato, poi portatela sul fuoco, a fiamma media.

Fate dorare l'aglio, poi toglietelo e aggiungete le puntarelle, salandole leggermente e facendole saltare, a fiamma vivace, per un paio di minuti, in modo da renderle morbide, poi spegnete e fatele freddare.

Tanto che le puntarelle si raffreddano, tagliate la mozzarella di bufala e fette non troppo sottili e lasciatele per qualche minuto su di un tagliere inclinato, in modo che un poco del loro siero possa colar via.

Bene, siamo pronti per la composizione del panino, dividendolo in due e, sulla metà inferiore, metterete l'emulsione di acciughe, in modo da coprire uniformemente la mollica.

Disponete poi le fette di pomodoro disidratato, a seguire quelle di mozzarella di bufala, terminando infine con le puntarelle saltate.

Chiudete il panino con la metà superiore, premendo leggermente, lasciate riposare per cinque minuti e poi, finalmente, addentate.

Buona appetito.

29 novembre 2013

Gamberoni cotti a bassa temperatura, con agrodolce di peperone rossi, crema di broccoletti e bisque di gamberi



Dopo la felice esperienza del calamaro cotto a bassa temperatura, ci ho riprovato, questa volta con i gamberoni, cotti a 63° per venti minuti, con risultato altrettanto buono, ancora una volta in termini di morbidezza e persistenza dei sapori.

Insieme ai gamberoni, e direi più a scopo decorativo che altro, un agrodolce di peperoni dolci e una crema di broccoletti, entrambi con sapori decisi, che contrastano con la dolcezza e morbidezza dei gamberoni.

Ho poi deciso di rendere ancora più intenso il sapore dei gamberoni, condendoli, oltre che con un eccellente olio novello, anche con una bisque fatta con i gusci degli stessi gamberi.

Sale nero delle Hawaii e pepe bianco completano il tutto.

Per la cottura a bassa temperatura, ho ovviamente utilizzato il regalo che mi ero fatto per il Natale 2012.

Ingredienti (per 4 persone)

Per i gamberoni
  1. Sedici gamberoni
  2. Olio extravergine d'oliva
  3. Sale nero delle Hawaii
  4. Pepe bianco
Per la crema di broccoletti
  1. Una decina di foglie di broccoletti
  2. Olio extravergine di oliva
  3. Sale
Per l'agrodolce di peperone rosso
  1. Mezzo peperone rosso
  2. Due cucchiai di aceto di mele o di vino bianco
  3. Due cucchiai di acqua
  4. Un cucchiaio di zucchero di canna
  5. Olio extravergine di oliva
  6. Sale
Per la bisque
  1. I gusci dei gamberi
  2. Un quarto carota
  3. Un quarto di costa di sedano
  4. Un quarto di cipolla
  5. Olio extravergine d'oliva
  6. Sale grosso

Per prima cosa pulite i gamberi, rimuovendo la testa, il guscio e la coda, che terrete da parte per la bisque.

Rimuovete anche il filamento intestinale, provando ad estrarlo delicatamente o, se si dovesse rompere, facendo una piccola incisione sul dorso dei gamberi e togliendolo usando la punta di un coltellino.

Mettete i gamberi puliti in frigorifero, meglio se su un piatto coperto con della pellicola trasparente, e dedicatevi alla bisque.

Pulite e tagliate grossolanamente carota, sedano e cipolla, poi metteteli in una padella insieme a quattro cucchiai d'olio extravergine.

Portate la padella sul fuoco e fate soffriggere leggermente le verdure, quindi unite i gusci e le teste dei gamberi, salate leggermente con del sale grosso, quindi coprite a filo con acqua fredda.

Fate cuocere, a fiamma media e senza coperchio, fino a quando il fondo di cottura non si sarà quasi del tutto ridotto, cosa per la quale ci dovrebbero volere circa quaranta minuti.

Quando il fondo è pronto, spegnete e, usando una chinoise o un colino capiente e a maglie fitte, filtrate il tutto, premendo con un cucchiaio di legno sui gusci dei gamberi - questa operazione è importante soprattutto per le teste - in modo da estrarne i liquidi che fossero rimasti al loro interno.

Raccogliete il liquido filtrato in una ciotolina, poi assaggiatelo e, nel caso, regolate di sale.

Passate poi alla crema di peperone, pulendo quest'ultimo, eliminando semi e coste bianche interne, tagliandolo poi a pezzi, senza curarvi troppo della loro forma, dato che poi frullerete il tutto, e metteteli in un pentolino, con un cucchiaio d'olio extravergine, l'aceto di mele o di vino bianco, l'acqua, lo zucchero e un pizzico di sale.

Portate sul fuoco, a fiamma bassa con il coperchio, e fate cuocere fino a quando il peperone non sarà ben morbido, facendo in modo che a fine cottura ci sia ancora un minimo di fondo di cottura, che vi servirà per agevolare la trasformazione in crema, che dovrà risultare piuttosto fluida.

Quando il peperone è cotto, spegnete e, usando il Minipimer o il frullatore tradizionale, riducetelo in crema, lavorando con cura per eliminare ogni residuo intero.

Procedete poi in modo analogo con i broccoletti, prendendo solo la parte tenere delle foglie, che metterete in un altro pentolino, insieme ad un paio di cucchiai di olio extravergine e a mezzo bicchiere d'acqua.

Portate sul fuoco, con il coperchio e a fiamma media, e fate cuocere fino a quando il broccoletto non sarà morbido, salandolo verso metà cottura. Anche in questo caso fate in modo che a fine cottura ci sia abbastanza fondo, in modo da avere la giusta densità della crema.

Quando anche i broccoletti sono cotti, procedete come per i peperoni, frullandoli e trasformandoli in crema.

Mettete l'agrodolce e la crema da parte e dedicatevi finalmente ai gamberoni, riprendendoli dal frigorifero e mettendoli nel sacchetto per il sottovuoto, senza aggiungere nulla, nemmeno il sale, che gli farebbe rilasciare troppo liquido durante la cottura.

Fate infine il sottovuoto, seguendo le istruzioni della vostra macchina e, mi raccomando, verificate che i sacchetti che usate siano resistenti al calore e, quindi, adatti alla cottura.

Portate l'acqua alla temperatura di 63° e quindi immergete il sacchetto, facendo cuocere per venti minuti, poi tiratelo fuori dall'acqua, apritelo facendo colare via l'acqua rilasciata dai gamberoni.

Bene, abbiamo fatto e non resta che impiattare.

Distribuite per prima cosa un poco di agrodolce di peperoni e crema di broccoletti sul fondo dei piatti, stendendoli usando un pennellino di silicone o il dorso di un cucchiaio.

Disponete poi i gamberoni, salandoli con il sale nero, macinandoci sopra un po' di pepe bianco e dando un leggero filo di olio extravergine, completando infine con la bisque, che farete colare su ciascun gamberone aiutandovi con un cucchiaino.

Guarnite a vostro piacimento, poi portate rapidamente in tavola, per evitare di far freddare i gamberoni.

Buon appetito.

Abbinamento consigliato dall’Enoteca Colordivino: mi sembra la ricetta giusta per proporre un vino bianco del Friuli, una Ribolla gialla con piccola aggiunta di Tocai e Riesling, come il Vinnae Ribolla Gialla di Jermann.

28 novembre 2013

Le mie ricette - Carpaccio di triglia con fichi secchi, sale nero, finocchietto ed emulsione di melograno



L'ispirazione per questa ricetta mi è venuta durante la partecipazione ad un corso di cucina, organizzato da Coquis e tenuto dal fantastico Chef Angelo Troiani, del ristorante "Il Convivio" di Roma.

Un carpaccio di triglia di scoglio - per la cronaca, la triglia di scoglio si riconosce da quella di sappia per la presenza di strisce gialle che ne percorrono il corpo in tutta la sua lunghezza - accompagnato dai fichi secchi, anch'essi tagliati sottilmente, e condito con del sale nero delle Hawaii, del finocchietto selvatico e, per finire, da un'emulsione di olio e succo di melograno.

Preparazione veloce, tutta a crudo, con solo la pazienza per sfilettare la triglia, che essendo piuttosto piccola rende l'operazione non troppo agevole.

Ingredienti  (per 4 persone)
  1. Quattro triglie di scoglio
  2. Mezzo melograno
  3. Due fichi secchi
  4. Un rametto di finocchietto selvatico
  5. Olio extravergine di oliva
  6. Sale nero
  7. Pepe bianco

Partite con lo sfilettare le triglie - se siete bravi e convincenti, potete sperare nella misericordia del pescivendolo e farvele sfilettare da lui - operazione per la quale ci vuole un po' di pratica e di pazienza, dato che sfilettare il pesce, se non l'avete mai fatto, non è proprio semplicissimo.

Usate un coltello piuttosto piccolo, con la lama flessibile e ben affilata, poi prendete le triglie e tagliategli via le teste, in modo che il corpo poggi meglio sul tagliere.

Partendo dalla coda, incidete la polpa e,tenendo la lama del coltello a contatto con la lisca centrale, tagliate per tutta la lunghezza, mantenendo sempre il coltello ben a contatto con la lisca, fino ad uscire dalla parte della testa.

Girate il pesce e ripetete per l'altro lato. Tutto sommato più facile a farsi che a dirsi.

Usando un paio di pinzette (ci sono quelle specifiche per il pesce), rimuovete le lische residue, che si trovano nella parte centrale dei filetti e poi, sempre usando un coltello affilato, rifilate i filetti, rimuovendo la parte di pelle sui bordi che, normalmente, è più spessa e meno gradevole, sia alla vista che al gusto.

Rimuovete infine la parte più scura della polpa, quella vicino alle interiora, che ha un sapore piuttosto forte e amaro.

Mettete ora i filetti su un tagliere, con la pelle rivolta verso il basso e usando sempre il coltello affilato, cominciate a ricavare le singole fettine per il carpaccio, partendo vicino alla coda e muovendovi gradualmente verso la testa, man mano che procedete con le fettine.

Dovete far lavorare la lama del coltello, senza forzare troppo, cosa che causerebbe la rottura delle sottili fettine di pesce.

Forza che il più è fatto.

Prendete i piatti che avete scelto e disponete le fettine di triglia nella configurazione che più vi piace, comunque cercando di fare un solo strato, senza sovrapposizioni.

Prendete un foglio di carta da forno tagliato a misura e poggiatelo sul carpaccio, poi esercitate un minimo di pressione in modo da livellare il pesce, ripetendo ovviamente per tutti i piatti.

Salate ogni porzione con il sale nero, con una leggera macinata di pepe bianco e, per finire, distribuite il finocchietto selvatico, prendendo ovviamente solo le punte, più morbide.

Tagliate a metà il melograno e spremetelo usando un classico spremi agrumi, raccogliendo il succo in una ciotolina e aggiungendo poi una eguale quantità di olio extravergine, poi emulsionate con decisione, in modo da combinare i due liquidi.

Aiutandovi con un cucchiaino, distribuite l'emulsione su ciascun carpaccio, considerando orientativamente un paio di cucchiaini per ogni porzione.

Tagliate infine i fichi secchi in fettine sottilissime e distribuitele su ciascun carpaccio, poi guarnite come desiderate e portate velocemente in tavola.

Buon appetito.

Abbinamento consigliato dall’Enoteca Colordivino: propongo un Metodo Classico fresco e vivace, da uve Pinot bianco, Pinot nero e Chardonnay, un vino che, come questo piatto, mette allegria: l’Opera Metodo Classico Brut Le Marchesine.

27 novembre 2013

Le mie ricette - Ravioli di aringa e patate, con burro al profumo di timo e noce moscata



Questa ricetta si è classificata la primo posto nel concorso "Cucina da Errico", organizzato dallo Chef stellato Errico Recanati, del Ristorante Andreina.



Il mercato dei ravioli è in fermento e, sugli scaffali dei supermercati, oramai se ne trovano ripieno un po’ di tutto, dai più classici ai più spregiudicati.

Il fenomeno mi incuriosisce, lo ammetto, per cui ho deciso di adeguarmi alla spregiudicatezza, facendo dei ravioli particolari, usando l’aringa affumicata, le patate e il porro.

Dall'unione di patate e aringhe, appunto, il nome del piatto, per un sapore particolarmente deciso, appena ingentilito dal porro cotto in agrodolce, che stempera il gusto molto pronunciato dell'aringa.

La pasta dei ravioli è fatta in casa, ma voi potete, se siete pigri o avete fretta, prendere una di quelle confezioni di pasta fresca per le lasagne ed usare i fogli per ricavarne i ravioli.

Ingredienti (per 6 persone)

Per la pasta
  1. 400 grammi di farina “00” (o, in alternativa, di semola di grano duro)
  2. 3 uova intere
  3. 5 tuorli
Per il ripieno
  1. Mezzo chilo di patate a pasta gialla
  2. Un etto di filetto di aringa affumicata
  3. Un porro
  4. Tre cucchiai di aceto di vino bianco
  5. Un cucchiaio colmo di zucchero di canna
  6. Un pezzetto di noce moscata
  7. Qualche rametto di timo fresco
  8. Parmigiano Reggiano grattugiato
  9. Quaranta grammi di burro
  10. Sale e pepe

Partiamo con la preparazione della pasta, che deve riposare almeno un’oretta.

Innanzitutto, per il numero di uova, regolatevi anche in base alla loro grandezza, tenendo presente che le quantità che vi  ho dato vanno bene per uova di dimensione normali (oramai nei supermercati si trovano uova normali, medie, grandi e grandissime).

Tenete anche presente che se, durante la fase iniziale della lavorazione, vi doveste accorgere che il tutto vi sembra troppo secco o troppo umido, potrete sempre aggiungere, rispettivamente, un altro uovo o un po’ di altra farina. Non è il massimo, ma è sempre meglio che ritrovarsi con un impasto inutilizzabile.

Bene, siamo pronti.

Se avete l’impastatrice altro non dovete fare che versare tutti gli ingredienti nel recipiente, montare il giusto gancio per la lavorazione e far partire il motore a velocità bassa.

Vedrete che all’inizio l’impasto sembrerà quasi polveroso ed è possibile che vi venga qualche dubbio sul fatto che qualcosa prima o poi succederà. Dopo un po’, però, cominceranno a formarsi le prime aggregazioni di farina e uova, che piano piano cresceranno sino a produrre la classica palla (praticamente state ricreando il processo di formazione di una stella nell'universo, solo che questa volta la stella ve la potrete mangiare).

Dal momento che la palla si sarà formata, fate andare ancora per 5 minuti, poi spegnete, tirate fuori la palla e lavoratela a mano per qualche altro minuto.

Se invece avete optato per la lavorazione manuale, fate la classica fontana con la farina e al centro metteteci le uova e poi, con le vostre preziose manine, cominciate ad impastare, prendendo la farina ai lati e muovendola verso il centro. Anche in questo caso formate la palla e lavoratela “di polso” usando il cuscinetto delle mani (la parte vicino al polso).

Avrete notato che non ho menzionato il sale, che infatti non va messo nell’impasto, dato che questo acquisterà la giusta sapidità quando verrà cotto nell’acqua, che ovviamene sarà salata opportunamente.

Bene, tanto che la pasta si riposa nel frigorifero, passate alla preparazione del ripieno, partendo con la lessatura delle patate, mettendole, con tutta la buccia, in un'ampia pentola coperte da abbondante acqua fredda, leggermente salata e portandole sul fuoco.

Fate raggiungere il bollore e portate a cottura le patate, avendo cura che siano ben morbide, visto che poi le dovrete passare  al passa patate.

Tanto che le patate si cuociono, pulite il porro, eliminandone la base, e poi tagliatelo a fettine sottili, partendo dalla parte bianca e procedendo fino a quando non arrivate a quella verde, dove vi fermerete.

Prendete un pentolino, meglio se anti-aderente, metteteci un cucchiaio d'olio extravergine, i porri, l'aceto di vino bianco, tre cucchiai di acqua, un pizzico di sale e lo zucchero di canna.

Portate il pentolino sul fuoco, a fuoco basso e con il coperchio, e fate andare fino a quando il porro non sarà appassito - ci vorrà circa una mezz'ora - controllando ogni tanto che ci sia ancora fondo di cottura e, nel caso, aggiungendo ancora un po' d'acqua.

Verso fine cottura, togliete il coperchio, alzate leggermente la fiamma e fate andare giusto il tempo di ridurre quasi del tutto il fondo di cottura, poi spegnete e fate freddare, sempre senza coperchio.

Nel frattempo anche le patate dovrebbero essere cotte, per cui scolatele e fatele intiepidire, se non altro per evitare di lasciarci attaccate le dita quando le sbuccerete.

Sbucciate le patate e passatele al passa patate, raccogliendo la polpa in una ciotola, che lascerete per circa quindici minuti all'aria aperta, in modo che buona parte dell'umidità residua delle patate possa evaporare, dando maggior fermezza al ripieno che preparerete.

Tanto che le patate si asciugano, prendete l'aringa, mettetela sul tagliere, tagliatela in pezzi e poi, usando un coltello con una bella lama, tritatela grossolanamente, in modo da ottenere pezzi piuttosto piccoli, che possano armonizzarsi con il ripieno.

Fato lo stesso anche con il porro, in modo che anch'esso si amalgami bene con il ripieno, lasciandovi il suo sapore ma senza che i singoli pezzi siano poi percepibili quando vi papperete i ravioli.

Unite aringa e porro alle patate e mescolate per bene, fino a quando l'impasto non vi sembrerà perfettamente amalgamato, quindi regolate di sale, date una macinata di pepe nero, un leggero filo d'olio extravergine e, per finire, date un'ultima mescolata.

Mettete il ripieno in frigorifero e ritornate alla pasta, stendendola e fermandovi ad uno spessore sottile ma non troppo, leggermente maggiore, ad esempio, di quello tipico delle fettuccine, dato che i ravioli saranno piuttosto grandi e dovranno contenere una generosa dose di ripieno.

Potete ovviamente stendere sia a mano che, se l’avete, con la macchina per la pasta.

Usando un cucchiaio, disponete il ripieno su un primo strato di pasta, considerando un cucchiaio ben colmo per ogni raviolo e distanziando ogni ripieno di circa sei centimetri dal successivo.

Prendete poi un altro foglio di pasta, di dimensione tale da poter coprire quello sottostante, considerando che, in più, il foglio che ricopre deve poter creare la cupoletta con il ripieno, ed adagiatelo delicatamente su quello sottostante.

Usando le dita, fate aderire per bene il foglio superiore di pasta al ripieno, facendo uscire le sacche d’aria, che inevitabilmente si formano, poi, sempre con le dita, premete leggermente tutto intorno, in modo da far aderire perfettamente i due fogli di pasta (a tale proposito, prima di unire i due fogli di pasta, ricordatevi di eliminare il più possibile la semola che avrete usato durante la lavorazione della sfoglia, semola che impedirebbe la corretta unione dei due fogli).

Usando uno stampo per ravioli, uno di quelli con il bordo dentellato, oppure una rotellina taglia pasta, sempre a bordi dentellati, ricavate i ravioli, dandogli la forma che preferite.

Controllate che i bordi siano ben chiusi e, se così non fosse, sollevate leggermente lo strato superiore e poi, usando le dita, inumidite leggermente con l’acqua quello inferiore, poi richiudete. Questo dovrebbe garantire una sigillatura perfetta.

Se decidete di cuocere i ravioli più tardi, metteteli nell’attesa su di un foglio di carta da forno, sul quale avrete messo un po’ di semola.

Quando siete pronti, mettete l’acqua per la cottura sul fuoco, scegliendo una pentola molto grande o, meglio ancora, una grossa padella anti-aderente, dove i ravioli possano sguazzare per benino (per padella grossa, intendo di almeno 36 centimetri di diametro).

Quando l’acqua è a bollore, immergeteci delicatamente i ravioli e fateli cuocere, considerando che il tempo di cottura dipenderà dallo spessore al quale avete tirato la pasta. Nel mio caso, con uno spessore della pasta piuttosto sottile, ci sono voluti circa 10 minuti dalla ripresa del bollore.

Una buona regola per valutare la cottura, considerando che non potete certo assaggiare uno dei ravioli, è quella di aggiungere nella pentola un pezzo di pasta avanzato, ripiegato su se stesso, in modo che abbia lo stesso spessore dei ravioli, ed assaggiarlo per poter valutare lo stato di cottura dei ravioli.

Tanto che i ravioli si cuociono, prendete il burro e mettetelo in un pentolino, insieme alle foglioline di timo e alla noce moscata, grattugiata finemente. Per le rispettive quantità non esiste una regola ferrea, quanto piuttosto quella del vostro gusto, che vi porterà a trovare il perfetto equilibrio tra i due profumi.

Portate il pentolino sul fuoco, a fiamma bassa, e fate sciogliere il burro, lasciandolo poi sfrigolare per qualche minuto, in modo che i profumi del timo e della noce moscata possano esprimersi al meglio, poi spegnete e coprite per tenere il caldo.

Ritornate ai ravioli e, quando sono cotti, scolateli uno ad uno, usando un mestolo bucato ed avendo cura che tutta l’acqua possa scolar via, poi metteteli direttamente sui piatti nei quali li servirete. Viste le dimensioni, direi che tre ravioli a testa sono una bella porzione.

Fate colare un cucchiaio del burro aromatizzato su ogni raviolo e distribuite, facendolo cadere a pioggia, un po' di parmigiano grattugiato.

Portate rapidamente in tavola e degustate, sentendovi parte di un gemellaggio Italia-Svezia.

26 novembre 2013

L’importanza del riccio, di Giulio Terrinoni...


...ovvero, come un libro è in grado di  annullare il tempo durante un viaggio in treno tra Roma e Milano.


Quasi come un segno del destino, la copia del libro mi arrivò la sera prima di un mio viaggio di lavoro a Milano, a riprova del fatto che, benché sovente beffardo, il destino sa anche essere benevolo.

La sera prima avevo avuto al fortuna di assistere alla presentazione del libro dello Chef Giulio Terrinoni, mio nume gastronomico, presso Coquis -Ateneno Italiano della Cucina, che per chi ancora non lo sapesse - e qui mi lancio con piena consapevolezza in una argomentazione ab absurdo - è un luogo di celebrazione e di insegnamento dell’arte gastronomica.

Durante la presentazione, da me vissuta come un adolescente che va al primo concerto del suo cantante preferito (no, non temete, la biancheria intima l’ho tenuta al suo posto), avevo avuto il chiaro sentore che avevamo a che fare con un libro diverso: non la solita raccolta di ricette-che-ognuno-può-fare-ma-che-se-poi-le-fa-vengono-una-chiavica, ma un Libro, con la “L” maiuscola, che racconta, che narra, che fa sognare, che ci rende parte di un percorso, quello di Giulio, che l’ha portato ad essere ciò che oggi è: l’Executive Chef del Ristorante Acquolina, un posto stellato (nel senso della Guida Michelin) dove non si va a mangiare, ma a vivere un’esperienza gastronomica, un olismo che trascende il mero elenco delle portate e ci dona invece un unicum indivisibile, dove ogni singolo ingranaggio sta dove deve stare e dal quale si esce in una sorta di nirvana gastronomico.

Comunque, tornando a bomba, dicevo che già la presentazione lasciava presagire il trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo, qualcosa che però, lì e allora, non avevo apprezzato appieno, complice anche un mega-calice di spumante che mi ero trovato in mano alla fine della presentazione e che aveva prodotto in me effetti paragonabili a quelli del tristemente noto Rohypnol: perché ero lì ? Come ci ero arrivato ? Chi ero ? Dove andavo ? Da dove venivo ? Cosa era successo ? Ero solo nell’universo ? Un governo stabile sarebbe mai stato possibile ? Esiste una vita dove io sia un uomo magro ? Insomma, le mie già scarse capacità cognitive volgevano al definitivo spegnimento.

Tornato a casa, con la simpatica prospettiva di svegliarmi alle 5 del mattino per prendere il treno, lasciai il libro in ingresso, ripromettendovi di leggermelo nelle tre ore di viaggio tra la Roma fancazzista e la Milano operosa (perdonatemi, ma ogni tanto mi scappa un bisogno fisiologico di luoghi comuni).

Morfeo, bontà sua, mi accolse rapidamente (credo anche con la complicità di Bacco) e la mattina dopo, al dolce suono della sveglietta, con tutta la famiglia che beatamente dormiva, mi dedicai alle abluzioni; indossai il completino da lavoro; bevvi il Nespresso di intensità un milione, sperando nelle doti miracolose della caffeina; chiamai il Taxi; feci le solite chiacchiere di prammatica con il tassista, con spregiudicate affermazioni del tipo “certo che il freddo è proprio arrivato”; “Roma a quest’ora è bellissima”“ma chi glielo fa fare di fare footing a quest’ora”; arrivai alla stazione (“la stazione Termini a quest’ora è bellissima”, pensai tra me e me, prendendo chiaramente atto dell’inefficacia del caffè di intensità un milione); salii sul treno; sistemai tutte le mie cosine; feci il cavaliere quel tanto che bastava: “Signora, lasci che l’aiuti, dia a me la valigia”, salvo poi trattenermi a stento dal chiederle “è un lavoro interessante quello del rappresentante di pesi da sub ?”.

“Il treno Frecciarossa 9602 è in partenza. Gli accompagnatori sono pregati di scendere dal treno”. Accompagnatori !? Alle 6 del mattino !? Cos’è , la sagra dell’ironia provocatoria ?

Il treno si mosse e io, finalmente, aprii il libro...

Qui la sceneggiatura prevede il cambio di tempo verbale, dal passato remoto al presente, per condividere con voi ciò che ho letto.

Prima cosa fondamentale: l’importanza del riccio è un libro e non un ricettario - ma questo ve lo avevo già detto - un libro che ci racconta la storia di Giulio Terrinoni, una storia fatta di piccoli ma importanti momenti, dalla sua illuminazione sulla via, non di Damasco, ma di Fiuggi; del suo abbandonare la scuola tradizionale per entrare in quella alberghiera, inizialmente mosso da una sorta di voglia di pigrizia, ma poi, appunto, rapidamente illuminato; dalle sue esperienze, prima nei grandi alberghi e poi nei ristoranti, a partire da  quello di Antonio Ciminelli, passando per il Panda di Roma, per arrivare infine, a coronamento del suo percorso, almeno di quello fatto fino ad oggi, all’Acquolina, grazie anche all’incontro con Angelo Troiani, altro luminare della ristorazione nonché celebrato e stellato Executive Chef del Ristorante Il Convivio e fondatore, insieme ai suoi fratelli, del già citato Coquis.

E’ un libro che ci racconta piccoli spaccati di vita, che consentono a Giulio di portarci a conoscere il suo modo di cucinare; il suo innamoramento per il pesce, che rispetta anche nella scelta di una specie piuttosto che un’altra; la sua visione di menù, che privilegia ciò che si trova giorno per giorno - il suo motto, o meglio quello che ha fatto suo dopo averlo sentito da un pescatore di Anzio, è che “al mare non si fa la spesa, al mare si pesca” - a dire che la vera cucina di pesce è fatta sulla base di quello che si trova sui banchi, senza troppa pianificazione e senza inseguire le mode del momento.

E’ un libro che ci rende partecipi della volontà di Giulio di “portare la terra al mare”, una sorta di inno sull’importanza di coniugare, nei piatti, due realtà che solo apparentemente sono distanti.

E’ un libro che scorre veloce, con tre bellissime prefazioni, a partire da quella di Arianna Saraceni, massima esperta di ricci di mare, che raccoglie personalmente e distribuisce tra i pochi fortunati, passando per quella di Antonio Ciminelli, che come già detto segna il passaggio di Giulio dal mondo alberghiero a quello della ristorazione gourmet, finendo con quella di Giuliano Capecelatro, anche lui scrittore.

E’ un libro con il quale Giulio ci porta per mano lungo un percorso ideale, che ci racconta come si svolge la giornata di uno Chef, dal rito della spesa, l’unica cosa che non ha mai delegato ad altri, alla discussione con il suo team su cosa preparare con ciò che la spesa ha portato; dalla sua concezione del ristorante, inteso come ambiente che accoglie e di come l’ospite deve essere, appunto, accolto e servito.

E’ un libro dove le pagine si sfogliano con estrema piacevolezza, dove la prosa è diretta, ma che proprio per questo comunica in modo perfetto ciò che Giulio vuole condividere con il lettore. Una prosa assolutamente in linea con la sua visione di cucina, di grande cucina. Una prosa che ti fa sentire Giulio uno di noi, quasi a volerti far credere che ciò che ha fatto lui lo possa fare chiunque.

E’ un libro dal quale traspare in modo prorompente una voglia continua di ricerca e di studio, una apertura a tutti i tipi di cucina, che per Giulio sono fonte di ispirazione e non di confronto, di competizione. Una ricerca che è parte integrante e indissolubile della concezione che Giulio ha di essere un grande cuoco.

E’ un libro dove, alla fine, ci sono anche le ricette, con buona pace di chi le reputa parte imprescindibile in qualsiasi libro di cucina. Non so perché, ma ho quasi il dubbio che Giulio le abbia messe perché, se non lo avesse fatto, qualcuno avrebbe potuto considerare il libro incompleto. Ricette che, peraltro, sono quelle di alcuni piatti che Giulio serve nel proprio ristorante, a dimostrazione di quanto in lui sia forte la voglia di condividere, piuttosto che di proteggere.

E’ un libro che ho divorato avidamente, ben prima di arrivare a Milano e l’unica colpa che mi sento di attribuire a Giulio è quella di non avermi dato tempo di recuperare il sonno interrotto sulle comode poltrone del Frecciarossa.

Che dire, arrivato a Milano ho dovuto mio malgrado riprendere contatto con la realtà, pensando tra me e me che se dovessi descrivere a qualcuno il carattere di Giulio, che ho avuto la fortuna di conoscere di persona, direi, rubando un termine a mio figlio, “sciallo”, termine al quale associo una valenza assolutamente positiva, per indicare un carattere improntato all’apertura, alla condivisione, alla trasparenza della passione, alla voglia di comunicarla, senza quell’atteggiamento elitario che, ahimé, si trova spesso altrove.

Le mie ricette - Spaghettoni con pannocchie di mare e radicchio rosso essiccato



Anche in questo caso, come per questa ricetta, l'ispirazione è arrivata durante la partecipazione ad un corso di cucina, organizzato da Coquis e tenuto dal fantastico Chef Angelo Troiani, del ristorante "Il Convivio" di Roma.

Una pasta, quindi, con le pannocchie di mare - conosciute anche come cicale di mare - delle quali ho utilizzato sia la polpa, appena scottata, che i gusci, con i quali ho fatto un brodo, usato poi per la fase finale della cottura della pasta, cottura che è avvenuta per 3/4 del suo tempo in modo tradizionale, mentre per il rimanente quarto direttamente in padella, insieme appunto al brodo di pannocchie.

Il radicchio rosso l'ho essiccato in forno, poi sbriciolato e unito solo a fuoco spento, quasi fosse del parmigiano.

Come formato di pasta, infine, i fantastici spaghettoni Cavalieri, celeberrimo pastificio pugliese, già utilizzati in questa ricetta e in quest'altra.

Ingredienti (per 6 persone)
  1. Mezzo chilo di spaghettoni
  2. Otto etti di pannocchie di mare
  3. Un piede di radicchio rosso di Treviso
  4. Un bicchiere di vino bianco
  5. Qualche ciuffo di prezzemolo (vedi dopo)
  6. Due spicchi d'aglio
  7. Un pezzetto di peperoncino
  8. Olio extravergine di oliva
  9. Sale e pepe

Partite con la pulizia delle pannocchie di mare, eliminando testa e coda - potete tranquillamente usare un paio di forbici da cucina - e aprendo il corpo, cosa che farete tagliandone un lato per tutta la sua lunghezza, in modo da separare il carapace - la parte superiore dell'esoscheletro dei crostacei - dalla parte inferiore.

Sollevate quindi il carapace, esponendo la polpa, che delicatamente staccherete e metterete su un piatto.

Quando avrete finito con la pulizia, mettete il piatto con la polpa in frigorifero e raccogliete tutti i gusci, teste e code incluse.

Prendete una casseruola, ungetela con quattro cucchiai di olio extravergine, metteteci uno spicchio d'aglio sbucciato e leggermente schiacciato, i gambi del prezzemolo grossolanamente tagliati - per la cronaca, la parte saporita e profumata del prezzemolo è il gambo e non le foglie, che sono invece un concentrato di clorofilla -  e portatela sul fuoco.

Fate scaldare l'olio e lasciate sfrigolare aglio e prezzemolo per un paio di minuti, quindi unite i gusci delle pannocchie, facendoli rosolare per qualche minuto e, al tempo stesso, schiacciate i gusci con un cucchiaio di legno, in modo da estrarne per quanto più possibili gli umori interni.

Aggiungete mezzo bicchiere di vino bianco, un poco di sale grosso e circa un litro di acqua, poi alzate la fiamma e fate prendere il bollore, momento a partire dal quale calcolerete circa una mezz'ora di cottura, senza coperchio e sempre a fiamma allegra.

Tanto che il brodo va, lavate le foglie del radicchio e, usando un coltello o le forbici, ricavate solo la parte rossa delle foglie - le coste bianche potete tranquillamente buttarle, a meno che non vi venga in mente un modo per utilizzarle - che disporrete ben separate in una teglia, sulla quale avrete messo un foglio di carta da forno.

Salate leggermente le foglie, poi infornate a circa 100° per una mezz'ora, e comunque fino a quando le foglie non si saranno ben scurite e disidratate, segno della loro completa essiccazione.

Spegnete il forno, tirate fuori il radicchio e fatelo freddare.

Mettete in una ampia pentola l'acqua per la pasta - se vi va, ripassate prima la teoria – salatela, portatela sul fuoco e, quando bolle, buttate gli spaghettoni.

Mentre la pasta cuoce - gli spaghettoni hanno un tempo di cottura piuttosto lungo - prendete una padella, ampia abbastanza da poter poi contenere anche la pasta per la sua mantecatura finale, ungetela con otto cucchiai di olio extravergine, metteteci l'altro spicchio d'aglio, sempre sbucciato e leggermente schiacciato, ancora qualche gambo di prezzemolo, il peperoncino e portatela sul fuoco.

Fate prendere calore e dorare l'aglio, che poi toglierete, insieme anche al peperoncino e al prezzemolo.

Unite il rimanente mezzo bicchiere di vino bianco, qualche mestolo di brodo di pannocchie, facendolo passare attraverso un colino, in modo da filtrarlo e fate in modo che il tutto rimanga a bollore leggero.

Quando il tempo di cottura degli spaghettoni è più o meno alla sua metà, unite la polpa delle pannocchie di mare nella padella dove avete messo il brodo filtrato e, usando un cucchiaio di legno, giratele e al tempo stesso frammentatene la polpa, quasi a farla diventare una sorta di crema.

Considerando che la fase finale della cottura della pasta avverrà nella padella, fate in mondo che la quantità di brodo sia sufficiente, tenendo in ogni caso a portata di mano, e a bollore leggero, il brodo ancora non aggiunto.

Come detto all'inizio, scolate la pasta quando rimane circa 1/4 del suo tempo di cottura e unitela nella padella con il condimento, continuando la cottura e girando con una certa continuità.

Per il fatto di terminare la cottura in padella, non è necessario unire l'acqua di cottura della pasta, come normalmente si fa per la mantecatura, dato che l'amido residuo della pasta verrà comunque rilasciato durante la parte finale della cottura.

Dovrete fare in modo che la pasta arrivi alla giusta cottura nello stesso momento in cui la sua cremosità sia quella voluta, motivo per cui dovete avere a portata di mano altro bordo, che eventualmente userete per raggiungere l'equilibrio desiderato.

Spegnete e, solo a questo punto, aggiungete il radicchio essiccato, prendendolo dalla teglia e sbriciolandolo con le mani, lasciandone un poco da parte, da usare poi direttamente sui piatti dove servirete la pasta.

Date un'ultima mescolata, poi impiattate rapidamente, dando una leggera macinata di pepe su ogni porzione, distribuendo ancora un poco di radicchio e dando anche un leggero giro d'olio extravergine a crudo.

Guarnite come preferite e portate velocemente in tavola, per evitare che la pasta si asciughi, perdendo la sua cremosità.

Buon appetito. 

Abbinamento consigliato dall’Enoteca Colordivino: ancora una splendida presentazione, delicata e originale a cui abbinerei un fresco vino bianco dell'Alto Adige, minerale e profumato, come un Muller Thurgau di Tramin.