Ovviamente anche cinepanettoni, che diamine !
Eh si, analogia spregiudicata a parte, il senso è che a me piace mangiare
di tutto, perché solo nell’allargamento dei confini gastronomici alberga lo
spunto per la creatività (bella ‘sta frase, me la segno per usarla come mio
epitaffio).
E’ vero, nel blog faccio il fighetto e mi bullo delle mie ricette, ma nella
vita vera, quella di tutti i giorni, sono famoso per avere un comportamento
gastronomico molto vicino alle abitudini suine: mettetemi davanti qualcosa di
commestibile ed io lo divorerò.
“Mai da Mc Donald !”, direte voi ! Nessun
problema, ci sarà meno gente ed andrò io al vostro posto. “Non mangerei mai un prodotto confezionato e precotto !”, bene,
prima di buttarlo fatemi uno squillo, che magari passo dalle vostre parti.
Io mangio senza ideologia, senza preconcetti. Il mio unico fine è scoprire
cosa offre il mercato, buono o cattivo che sia. La mia filosofia è che anche
una macchia di vernice sul muro sia lo spunto per un’opera d’arte (sorvolo su
quanti, pittorialmente parlando, hanno osservato un’opera d’arte e vi hanno
trovato spunto per una macchia sul muro).
Non si vive di solo carpaccio, ma anche di pane e mortazza. Non ci si
titilla la papilla solo con vino d’annata, ma anche con il chinotto e
l’aranciata.
Ma come, direte voi, e tutte le pippe sugli accostamenti dolce-salato,
sull’esegesi della scarpetta, sullo statuto ontologico del carciofo ? Stanno
lì, rispondo io, ma non sono esclusivi rispetto all’impronta nazional-popolare
delle spinacine, al revisionismo del wurstel con dentro il formaggio, alla
spregiudicatezza del panino col kebab mangiato in piedi dentro le oramai
onnipresenti pizzerie-sushierie-kebabberie-gelaterie-yogurterie,
che in 10 metri quadri vi fanno fare un tour della gastronomia galattica.
Non rifuggo neanche l’istituzionale e sempre di moda cena dal cinese, dove
una pietanza costa meno del piatto che la contiene e dove ti portano
l’ordinazione ancora prima che tu l’abbia pronunciata. Certo, va messo in conto
il piccolo inconveniente che, uscendo dal ristorante, vi porterete dietro quel
simpatico afrore di glutammato e di fritto che, quasi a volervi ringraziare
della preferenza accordata ai simpatici orientali, vi renderà individuabili,
anche a mesi di distanza, financo da soggetti con danni permamenti agli organi
olfattivi.
Lo dico e lo ripeto, il gusto è soggettivo, la tecnica culinaria è
oggettiva, la creatività è metafisica. Mettete queste tre cose insieme ed otterrete
un incubo epistemologico, che non ho idea a cosa porti, ma mi piaceva il
termine.
L’apertura ad ogni forma di cucina è, peraltro, anche elemento di
sopravvivenza e di empatia culturale (ecco, lo sapevo, ancora una volta mi è
scappato un riferimento alla cultura, quella con la “C” maiuscola, direbbero
alcuni, che ancora devo capire cosa cacchio voglia dire, come se, per analogia,
ci fosse differenza tra il mandarvi a “fanculo” oppure a “Fanculo”).
Nulla mi mette più tristezza nel vedere in paesi esteri turisti italiani
che, al ristorante, sono disposti a
mangiare un piatto di pasta cotto in modo improbabile ed altrettanto
improbabilmente condito, pur di non cedere alle lusinghe della cucina locale.
Provare, sperimentare e ancora provare. Non si muore mangiando qualcosa di
cattivo, ne è disonorevole cedere al cibo di strada o a quello della grande
distribuzione.
Meglio veraci che snob; meglio esploratori che stanziali; meglio vivere di
rimorsi che di rimpianti. Lasciatevi andare, siate aperti ai compromessi e ricordate
che è lo stolto ad avere solo certezze, mentre il saggio ha solo domande.
Non si può essere creativi se non si osa e non si può osare se non si
superano le consuetudini.
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